fbpx
6.9 C
Pistoia
martedì 18 Novembre 2025
Segnala a Zazoom - Blog Directory
spot_img

Paura del futuro e diritto alla cura: così gli italiani giudicano sanità e welfare

In Italia la paura ha preso il posto della programmazione. Nove persone su dieci temono per il futuro del pianeta, oltre l’80% guarda con inquietudine al destino del Paese e sette su dieci vivono il proprio domani come un’incognita minacciosa. Nel frattempo, le urgenze quotidiane sono molto fisiche: trovare un medico, prenotare un esame, poter pagare una visita quando il sistema pubblico non regge i tempi. L’indagine di Eikon Strategic Consulting Italia, presentata alla Social Sustainability Week al Palazzo dell’Informazione di Roma, fotografa un’Italia che ha interiorizzato il legame tra salute, ambiente e condizioni economiche, ma che non si sente più protetta da un patto collettivo.

“Salute e benessere rimandano al ‘me’, non al ‘noi’”, osserva Enrico Pozzi, presidente e Ceo di Eikon. La spinta alla cura del corpo convive con la sensazione che il contesto sfugga di mano, che i grandi attori – Stato, Regioni, imprese – non riescano a garantire quella continuità di tutela che aveva caratterizzato la stagione d’oro del servizio sanitario. E proprio qui si apre il terreno di scontro, e di possibile ricomposizione, tra pubblico, privato e welfare aziendale.

Salute percepita meglio, ma a decidere sono reddito e territorio

Un primo dato sembra confortante: rispetto alla generazione precedente, la maggioranza degli intervistati percepisce un miglioramento netto nell’attenzione al benessere psicofisico, nella prevenzione e nelle possibilità di cura. Il 58% ritiene che oggi la cura di sé, anche sul piano psicologico, sia più centrale nella vita quotidiana. È il segno di un cambiamento culturale profondo: si discute di salute mentale, si parla di stress, si cercano percorsi di supporto, almeno sul piano del discorso pubblico.

La percezione non è uniforme. Tra i 16 e i 19 anni la quota di chi vede un miglioramento dell’attenzione al benessere scende al 51%. Chi è nato quando il tema era già entrato nel linguaggio comune sente meno la distanza con il passato. Gli over 60, al contrario, salgono al 65%: chi ha attraversato decenni in cui la salute era questione quasi esclusivamente fisica percepisce la svolta con maggiore nettezza.

Ancora più marcato è il giudizio sulla prevenzione: per il 62% è migliorata. Le persone avvertono di avere più strumenti informativi e più occasioni di screening. Ma quando la domanda si sposta sulla “possibilità di curarsi”, la percentuale cala al 49%, con una forbice di 13 punti rispetto alla prevenzione. La diagnosi arriva prima, l’accesso alle cure non tiene la stessa velocità. I più critici sono gli adulti tra i 42 e i 53 anni, stretto ceto intermedio che spesso gestisce contemporaneamente la propria salute, quella dei figli e quella dei genitori anziani.

Alla radice c’è la percezione che la salute non sia affatto una dimensione solo individuale. Alla domanda su che cosa influenzi di più salute e benessere, la risposta punta in modo schiacciante verso fattori economici e territoriali. Conta il reddito, conta la zona in cui si è nati e si vive. Le scelte di vita personale, gli stili salutari, il “comportarsi bene” pesano meno di quanto ci si aspetterebbe. L’istruzione, spesso celebrata come scudo protettivo, viene indicata solo dal 30% circa del campione: sapere che un controllo salva la vita non basta, se non ci sono risorse per pagare ticket, viaggi, visite private.

Sanita Eikon 18112025 Adn
(Adnkronos)

È un cambio di prospettiva rilevante. Gli italiani sembrano dire che la salute dipende meno da chi sei e da come ti comporti, più da quello che hai e da dove vivi. Un giudizio che cresce con l’età e che tra i lavoratori indipendenti del settore pubblico tocca l’81% quando si parla di condizioni economiche. La trasformazione è definita “asimmetrica” da Paola Aragno, vicepresidente di Eikon: la capacità delle persone di riconoscere i problemi procede più veloce della capacità del sistema di assorbirli e affrontarli.

Fiducia sospesa nel Servizio sanitario

Quando lo sguardo si sposta sul Servizio sanitario nazionale, l’Italia si divide quasi a metà: il 46% dice di avere fiducia nel Ssn, il 54% esprime giudizi che vanno dalla tiepida approvazione alla sfiducia. Non emerge una bocciatura radicale, ma una fiducia “sospesa”, condizionata, che non riesce a promuovere pienamente il sistema. Le risposte estreme – fiducia totale o totale mancanza di fiducia – restano minoritarie.

Le donne risultano più critiche: sono spesso loro a gestire i percorsi di cura dei familiari, dalle prenotazioni alle file in farmacia, dai pronto soccorso alle pratiche burocratiche. I giovani mostrano invece una maggiore polarizzazione: circa un quinto si colloca agli estremi, tra chi non ha alcuna fiducia e chi si dichiara molto soddisfatto. Una generazione meno abituata a “mediare” e più incline a pretendere standard elevati di servizio.

Colpisce che la percezione complessiva del Ssn sia identica tra occupati e non occupati, nonostante il peso diverso che la sanità pubblica ha sulle loro vite. Una possibile lettura è che, a prescindere dalla condizione lavorativa, l’esperienza di accesso ai servizi sia talmente simile da appiattire le differenze. Le criticità principali restano tre.

La prima riguarda i servizi di base. Metà del campione ritiene che i medici di famiglia funzionino poco e male; il giudizio migliora con l’età, segno che chi ha instaurato con il proprio medico un rapporto stabile tende a difenderlo. Il 55% giudica non ottimali le strutture sanitarie della propria zona, dal poliambulatorio all’ospedale di riferimento. Sono problemi concreti: tempi di attesa per una visita, sportelli disorganizzati, reparti che non rispondono al telefono.

La seconda criticità è strutturale: per l’81% degli intervistati il personale sanitario è insufficiente. Non viene messa in discussione la competenza dei professionisti – ritenuti preparati dal 58% del campione – ma la loro disponibilità. La carenza di infermieri, medici, operatori sociosanitari è percepita come il vero collo di bottiglia.

La terza riguarda il ricorso crescente al privato, vissuto più come conseguenza che come scelta. Per il 67% è inevitabile finire nella sanità privata, mentre il 53% ritiene ormai indispensabile una polizza integrativa. L’idea del Servizio sanitario come “eccellenza” riconosciuta sembra affievolirsi, soprattutto tra i più giovani.

Sul palco della Social Sustainability Week gli assessori regionali alla salute hanno dato voce a queste tensioni. Massimo Maselli, Regione Lazio, indica due snodi: sviluppo della sanità territoriale – case e ospedali di comunità, centrali operative territoriali – e vera integrazione sociosanitaria. Il Covid ha confermato la solidità della rete ospedaliera, ma anche la sua natura “ospedalocentrica”, che alimenta accessi impropri al pronto soccorso e ricoveri evitabili. Serve un filtro di prossimità e un coordinamento stretto tra distretti sanitari e distretti sociali, per prendere in carico le persone prima che finiscano in corsia.

Nel Lazio, ricorda Maselli, la digitalizzazione delle agende e l’inclusione obbligatoria delle strutture private accreditate nel sistema di prenotazione regionale hanno ridotto alcune distorsioni. Ma il nodo delle liste d’attesa resta aperto. La presa in carico vera, spiega l’assessore, significa che è il sistema a intercettare l’anziano fragile, non il contrario: “L’over 80 che avrebbe bisogno di sola assistenza sociale non deve arrivare al pronto soccorso per mancanza di alternative”.

La spinta verso il privato e il ruolo crescente del welfare aziendale

Il vuoto lasciato dalla percezione di un sistema pubblico affaticato viene riempito – per chi può permetterselo – da sanità privata e assicurazioni. Il 53% degli italiani considera ormai necessaria una copertura sanitaria integrativa; tra le forme di welfare aziendale più richieste dai lavoratori, l’assicurazione sanitaria è al primo posto. “I lavoratori chiedono alle aziende stabilità, continuità, certezza nei percorsi di cura. Fondamentalmente chiedono supporto”, sintetizza Paola Aragno.

Il settore assicurativo rivendica un ruolo complementare, non sostitutivo del Ssn. Cristiano Gianni, Chief Health Officer di Axa Italia, ricorda come i bisogni di salute siano in aumento per il progressivo invecchiamento della popolazione e per il peso delle malattie croniche negli ultimi decenni di vita. Il punto non è la qualità clinica del servizio pubblico, ancora alta nel confronto internazionale, ma la sua capacità di reggere i nuovi carichi.

L’assicurazione integrativa viene presentata come uno degli ingranaggi della sostenibilità complessiva del welfare, ancora sottoutilizzato in Italia. La spesa sanitaria “di tasca propria” – le visite pagate direttamente, senza intermediari – supera i 40 miliardi di euro, mentre quella intermediata da polizze si ferma intorno ai 5 miliardi. Un divario enorme, dovuto anche a un quadro fiscale che favorisce la spesa diretta rispetto a quella assicurativa: la singola visita privata gode della detrazione del 19%, il premio della polizza che copre le stesse prestazioni spesso no.

Sanità privata, incassi record: i dati del rapporto Mediobanca

Per le famiglie questo significa esporsi a picchi di spesa imprevedibili: un intervento, un ciclo di fisioterapia, un lungo periodo di inattività per un lavoratore autonomo. L’assicurazione, nella visione di Axa, serve a “mutualizzare” il rischio, distribuendo il costo nel tempo. Ma il settore non si assolve: prodotti troppo costosi, contratti difficili da leggere, procedure di rimborso farraginose tengono lontano chi avrebbe più bisogno di protezione.

Le compagnie iniziano a diversificare. Gianni racconta di polizze pensate anche per segmenti vulnerabili, con premi sostenibili e garanzie mantenute a vita, senza esclusioni automatiche dopo una certa età. Accanto alla copertura economica si sviluppa un ecosistema di servizi: teleconsulti, orientamento ai centri specialistici, piattaforme digitali per prenotare controlli o programmi di prevenzione. Strumenti che, nelle intenzioni, devono facilitare l’accesso al medico senza sostituirne il ruolo.

Il mondo aziendale è il campo in cui questa integrazione appare più concreta. Il welfare sanitario offerto dai datori di lavoro consente di abbattere i costi unitari grazie alla mutualità di gruppo e di godere di vantaggi fiscali che mancano alle polizze individuali. Per l’impresa è uno strumento competitivo: migliora l’attrattività sul mercato del lavoro, rafforza la retention, riduce l’assenteismo. Per il dipendente significa maggiore capacità di spesa, protezione rispetto agli imprevisti e possibilità di conciliare meglio tempi di vita e di lavoro.

Non è un caso che, nell’indagine Eikon, l’attenzione alla salute e un’offerta ampia di welfare aziendale superino – seppure di poco – l’importanza attribuita dall’opinione pubblica a pari opportunità e formazione. Il luogo di lavoro diventa uno spazio chiave di tutela: il dipendente si aspetta che l’azienda lo sostenga con coperture sanitarie, servizi psicologici, flessibilità organizzativa, buoni per l’educazione dei figli. Un trasferimento di aspettative che, come sottolinea l’antropologa Cristina Cenci, nasce dalla fragilità dei presìdi collettivi tradizionali.

Come tenere insieme i pezzi del sistema

Se il privato avanza, la questione centrale non è lo scontro tra modelli, ma la capacità di costruire un sistema in cui “ogni attore rafforza l’altro”, come ha chiesto provocatoriamente Aragno dal palco. Per riuscirci occorre ridisegnare la rete di presa in carico, partendo dal territorio. Maselli insiste sulle strutture previste dal Pnrr – case e ospedali di comunità, centrali operative – come chiave per alleggerire ospedali e pronto soccorso, ma anche per favorire l’integrazione con i servizi sociali dei comuni. Senza questa connessione, l’anziano con fragilità principalmente sociali rischia di essere trattato come un caso sanitario cronico, con costi altissimi e scarsa efficacia.

Dal Veneto, il direttore generale area sanità e sociale delle Regione, Massimo Annicchiarico, allarga il ragionamento alla tensione permanente tra salute individuale e salute collettiva. Il Covid ha mostrato quanto le due dimensioni possano divergere e quanto sia difficile governarle. L’incertezza, però, non viene letta solo in chiave negativa: è il prodotto di un’innovazione tecnologica che corre secondo una dinamica esponenziale. Pensiamo all’intelligenza artificiale in sanità, che ha reso già vecchio – in pochi anni – il quadro normativo del 2021 sulle strutture territoriali.

Il problema non è bloccare l’innovazione, ma governarla perché generi valore. Questo richiede istituzioni agili, capaci di aggiornare rapidamente regole, modelli organizzativi, profili professionali. Richiede anche una riflessione severa su ciò che ha eroso la fiducia dei cittadini: l’idea diffusa che “non bastino mai i soldi” rischia di oscurare un dato spesso dimenticato, ricordato da Annicchiarico: l’Italia è tra i Paesi più longevi al mondo e garantisce livelli di tutela nelle fasi di disabilità e non autosufficienza superiori a quelli di nazioni che spendono in sanità il doppio.

Questo non assolve nessuno dall’obbligo di investire, ma rimette al centro la questione di come si spendono le risorse: strutture inutilizzate, tecnologie sottoutilizzate, percorsi assistenziali che non comunicano tra loro. È qui che il contributo di imprese e assicurazioni può fare la differenza, se letto come parte di un disegno comune e non come scorciatoia individuale per chi può permettersela.

La salute, ricordano i dati Eikon, dipende da determinanti che non sono nelle mani dei singoli: reddito, ambiente, condizioni abitative. Ma esiste anche una responsabilità individuale e collettiva, che passa dai comportamenti quotidiani alla capacità delle istituzioni di coinvolgere i cittadini. Il capitale sociale – reti di fiducia, partecipazione, adesione a valori condivisi – diventa un elemento decisivo. Dove è forte, è più facile discutere di riforme sanitarie, accettare innovazioni che cambiano abitudini, sostenere scelte di lungo periodo.

Sul tavolo c’è anche una responsabilità generazionale. Il Pnrr, ricorda Annicchiarico, è un investimento che si tradurrà in debito per le generazioni più giovani. Portarlo “a valore” non significa solo spendere tutti i fondi, ma usarli per costruire un sistema capace di durare: strutture territoriali che funzionano, sanità digitale che dialoga con i cittadini, modelli di welfare aziendale e assicurativo che non creino nuove disuguaglianze ma contribuiscano a ridurre quelle esistenti.

In questo scenario, imprese, Regioni, professionisti della salute e cittadini si muovono dentro la stessa domanda: come trasformare la richiesta urgente di protezione in un progetto condiviso, che non lasci soli né i pazienti né chi li cura.

Popolazione

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

© Riproduzione riservata

spot_img

Notizie correlate

Pistoia
nubi sparse
6.9 ° C
7.8 °
5.2 °
71 %
3.7kmh
61 %
Mar
4 °
Mer
6 °
Gio
6 °
Ven
3 °
Sab
4 °

Ultimi articoli

SEGUICI SUI SOCIAL

VIDEO NEWS