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Infanticidi, cosa c’è dietro: il parere del pedagogista Daniele Novara

La cronaca recente ha riacceso i riflettori su un tema che scuote la società intera: l’uccisione di un figlio per mano materna. Di fronte a gesti così efferati e apparentemente inspiegabili, la collettività si interroga sulla loro origine, chiedendosi se si tratti sempre di patologie psichiche o se vi siano concause sociali. Come evitare che ciò accada? Qual è la responsabilità collettiva?

“L’isolamento e la solitudine sono pericolosissimi per una neomamma – risponde a Demografica Adnkronos il pedagogista Daniele Novara -. Il fenomeno è stato abbondantemente studiato dalla psicoanalisi. Uno dei più famosi psicoanalisti italiani, Franco Fornari, l’ha definita “paranoia primaria”. Si tratta della pulsione persecutoria, nei confronti del neonato, solo perché in quanto neonato, durante il parto, può potenzialmente essere la causa della morte materna. Ci sono stati evidenti miglioramenti nella scienza sulla gestione dei parti e della neo-maternità, ma nella memoria precognita collettiva delle donne c’è l’ipotesi che ciò possa verificarsi ancora. Le società tradizionali conoscevano bene questo meccanismo e non lasciavano mai una mamma da sola con il proprio neonato”.

Partiamo proprio da qui.

Il fenomeno in Italia

Nel novembre 2025, due figlicidi materni si sono verificati a brevissima distanza temporale: a Calimera, Lecce, si indaga sull’ipotesi di omicidio-suicidio di una madre di 35 anni e del figlio di otto anni, il cui corpo è stato trovato il 19 novembre con segni di strangolamento e ferite da taglio. Il padre del bambino aveva precedentemente espresso preoccupazioni alle autorità, segnalando frasi in cui la donna lo riteneva “responsabile” di quanto potesse accadere a lei e al figlio. Pochi giorni prima, a Muggia, Trieste, una donna di 55 anni, seguita da un Centro di salute mentale, ha ucciso il figlio di nove anni.

Questi casi si aggiungono ad altri infanticidi che spesso riempiono le pagine di cronaca, esempi sono quelli risalenti allo scorso anno riguardanti madri che sopprimono i figli appena nati e ne occultano i corpi, come accaduto a Reggio Calabria, dove una neomamma 25enne soffocò i suoi due neonati, o a Traversetolo, a Parma, dove una 22enne è stata accusata dell’omicidio dei suoi due figli, trovati poi sepolti nel giardino di casa.

I dati sul fenomeno in Italia, sebbene complessi da monitorare, sono allarmanti: secondo l’associazione Federico nel Cuore, dal 2000 a oggi sono stati registrati 558 omicidi di minori, con una frequenza di circa un episodio ogni quindici giorni. Questi crimini rappresentano circa il 12,7% degli omicidi avvenuti in ambito familiare. È fondamentale notare che, sebbene l’infanticidio in senso stretto sia tipicamente legato alla figura materna e alle ore successive al parto, il figlicidio, cioè l’uccisione di un figlio in generale, di qualsiasi età, vede una netta prevalenza maschile. In Italia, si stima che l’87% dei figlicidi sia commesso dal padre, e solo il 13% dalla madre. Tuttavia, alcune statistiche indicano che circa sei bambini appena nati su dieci sono uccisi dalla donna, a simboleggiare, probabilmente, che nei primi giorni di vita di un figlio è la mamma a subire una pressione psicologica maggiore.

La definizione e la legge italiana

Nel linguaggio giuridico, l’infanticidio è definito come l’uccisione volontaria del neonato al momento della nascita o immediatamente dopo. L’atto può essere commesso attivamente (tramite soffocamento o strangolamento) o in forma omissiva (non fornendo cibo o cure, abbandonando il neonato).

La normativa attuale è l’esito di un lungo e non lineare percorso storico. Nell’antica Grecia e a Roma, l’infanticidio era consentito poiché il bambino era considerato una res (proprietà) del pater familias, il quale esercitava il diritto di decidere sulla sua vita o sulla sua morte. Solo con l’avvento del Cristianesimo, nel IV secolo d.C., il crimine venne equiparato all’omicidio volontario e punito severamente.

L’attuale Codice penale italiano disciplina l’atto attraverso l’art. 578, rubricato “Infanticidio in condizioni di abbandono materiale e morale”. Questa norma prevede una pena notevolmente inferiore rispetto all’omicidio semplice (reclusione da quattro a dodici anni). Tale attenuante è applicabile esclusivamente se la madre cagiona la morte del neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, e se l’atto è connesso a condizioni di abbandono materiale e morale.

“Per questi motivi – ci ha spiegato Novara – considero il lasciare una mamma da sola col proprio neonato, una grave lacuna della società individualistica di oggi, della famiglia cosiddetta “nucleare”. Ci può essere una depressione post partum anche causata banalmente dall’insonnia che il pianto notturno del neonato può produrre. In altri casi si genera uno stato di deficit emotivo, per cui una madre può essere potenzialmente capace di compiere qualsiasi gesto – ha aggiunto Novara -. Paradossalmente, la società contadina era più prudente e organizzata in questa direzione. Eppure, oggi basterebbe venisse messo a disposizione un assistente all’allattamento, l’Olanda ce l’ha, ad esempio, o delle forme di accompagnamento che diano un contributo economico alle famiglie affinché dopo il parto possano permettersi una forma di supporto assistenziale. Un welfare basato sui nonni, oggi, è un azzardo”.

Aspetti psicologici e sociali

In psicologia, l’uccisione di un figlio da parte della madre è stata definita usando una metafora mitologica: la “Sindrome di Medea”. Medea uccise i suoi figli per vendicarsi del tradimento del marito Giasone. In un’interpretazione metaforica, coniata dallo psicologo Jacobs nel 1988, questa sindrome può indicare il comportamento di un genitore che, in seguito a separazioni turbolente, mira a distruggere il rapporto con l’altro genitore e il proprio figlio, strumentalizzando o uccidendo quest’ultimo, come atto di vendetta.

Le motivazioni dietro l’infanticidio sono quasi sempre multifattoriali, intervengono elementi individuali come la salute mentale o dei traumi, ma possono essere anche situazionali, come condizioni economiche complessi o psicosi puerperale. Contrariamente alla necessità collettiva di “giustificare” l’atto etichettando la madre come “incapace di intendere e volere”, la casistica rivela che solo una frazione minima delle donne che commettono questi crimini presenta patologie mentali gravi. Molto più spesso si riscontrano disturbi della personalità, negligenza, mancanza di responsabilità, o stati di estrema fragilità emotiva, solitudine e il senso di profonda trascuratezza.

Le madri infanticide in Italia, secondo le analisi criminologiche, sono tipicamente donne giovani (tra i 18 e i 32 anni), spesso coniugate, casalinghe e con un’istruzione media. Il loro profilo evidenzia una relazione conflittuale con il partner e, in molti casi (74%), disturbi psichici preesistenti, come la depressione, e precedenti segnali di disagio che potevano allertare la rete sociale, come tentativi di suicidio o addirittura di omicidio verso la futura vittima.

Le dinamiche psicologiche includono spesso una negazione della gravidanza e dell’atto, rifiutando la consapevolezza dell’omicidio. “A prescindere dallo stato psico-emotivo, la solitudine della neomamma è una condizione che la scienza ha abbondantemente studiato e non ci si può meravigliare di questi casi di cronaca quando si verificano queste condizioni – insiste Novara -. Ci sono donne che una volta scoperta la gravidanza iniziano già ad aver paura di crescere il proprio figlio. E le scienze giuridiche non sono allineate alle scienze psicologiche e pedagogiche, per cui a volte prevale la pura burocrazia giudiziaria sulla sostanza del problema: come successo a Trieste e come succede anche in altre situazioni. Il tema della cultura del possesso genitoriale sul proprio figlio rende possibile che venga concesso ad un padre pedofilo l’affidamento della propria bambina, caso esemplare di cui mi sono occupato in passato in prima persona”.

La maternità come punto di partenza (o fine)

La maternità rappresenta un momento di sconvolgimento fisico ed emotivo. Molte madri vivono la difficoltà di separarsi dal bambino una volta venuto al mondo. La condizione psichica estremamente fragile che precede questi atti deve essere ascoltata per permettere un intervento tempestivo e scongiurare conseguenze estreme. Come afferma il pedagogista Novara, “i genitori sono i titolari educativi dei bambini, ma i figli sono della società, non una proprietà privata. Il genitore è titolare della crescita, come un docente lo è dell’istruzione, ma i figli come gli alunni appartengono alla comunità umana. Questo dovrebbe essere il senso di uno Stato moderno di diritto. Altrimenti torniamo ad un elemento preistorico e tribale del possesso delle persone, come quando Abramo avrebbe dovuto sacrificare il figlio Isacco”.

Si può tornare ad essere genitori dopo aver commesso un infanticidio? “Temo di no. Alla coppia di Cogne (uno dei casi di cronaca più noti in tema di infanticidi, ndr) avrei interdetto la possibilità di fare altri figli, ma anche lì è prevalsa la logica giuridica. Io penso che una madre che commette un omicidio possa puntare ad una vita normale, essere reinserita nella società, lavorare, avere una vita sana. Ma tornare ad essere madre lo sconsiglio e lo dico anche per la sua stessa sicurezza e salute mentale”.

L’analisi di queste tragiche vicende dimostra che il supporto psicologico e un approccio empatico alla maternità, che ne riconosca anche le sfaccettature meno piacevoli, possono davvero fare la differenza, offrendo alle future neomamme gli strumenti per gestire il radicale cambiamento che la gravidanza comporta. È fondamentale che i sintomi di fragilità psichica estrema vengano ascoltati per scongiurare conseguenze irrimediabili.

Famiglia

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

© Riproduzione riservata

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