Dopo anni di trattative e un silenzio contrattuale durato più di un decennio, il nuovo contratto nazionale per colf, badanti e baby sitter è realtà. Firmato da sindacati e associazioni datoriali — Filcams Cgil, Fisascat Cisl, Uiltucs e Federcolf da un lato, Fidaldo e Domina dall’altro — l’accordo riguarda oltre 800mila lavoratori regolari, ma i suoi effetti si estendono a un sistema che ne coinvolge almeno il doppio. Dentro quel numero c’è una parte essenziale del welfare italiano: l’assistenza agli anziani, ai disabili, ai bambini.
Dal 1° novembre 2025, il livello medio BS — la misura di riferimento del contratto — vedrà un aumento lordo di circa 100 euro mensili, a cui si sommano 135,75 euro per il recupero del potere d’acquisto perso tra 2021 e 2025. Oltre 230 euro in più al mese, con una rivalutazione dei minimi che d’ora in poi seguirà il 90% dell’indice Istat, contro l’attuale 80%. È la prima volta che il lavoro domestico ottiene una dinamica retributiva così vicina a quella degli altri settori.
“Un riconoscimento sociale importante”, l’ha definito la segretaria generale della Cisl, Daniela Fumarola. I sindacati parlano di “una svolta di civiltà per chi tiene in piedi la vita quotidiana delle famiglie italiane”. Ma sotto il lessico celebrativo c’è la matematica degli stipendi e dei bilanci. L’aumento sarà scaglionato: 40 euro dal gennaio 2026, 30 nel 2027, 15 nel gennaio 2028 e altri 15 dal settembre dello stesso anno. Un percorso lungo tre anni, pensato per evitare uno shock immediato ai conti delle famiglie.
Il presidente di Fidaldo, Andrea Zini, parla di “un impatto il più possibile contenuto”, ma il compromesso è evidente: il contratto offre più diritti ai lavoratori, scaricandone il costo su chi li assume. Le famiglie diventano datori di lavoro a tutti gli effetti, con una responsabilità economica e burocratica crescente. È la contrattazione collettiva che si trasforma in politica sociale, in assenza di un sistema pubblico capace di sostenerla.
Il nuovo contratto mette alla prova le famiglie
Il nuovo contratto è stato costruito con l’intenzione di tutelare entrambe le parti, ma il risultato sposta l’equilibrio economico in modo netto. Per una badante convivente, l’aumento di 230 euro mensili significa un costo aggiuntivo annuo di oltre 2.700 euro. A questi vanno aggiunti contributi previdenziali e assicurativi. In molti casi, la spesa complessiva supererà i 1.400 euro al mese.
Per compensare, nel 2025 resteranno in vigore le detrazioni fiscali: fino a 1.549,37 euro l’anno per le spese di colf e badanti, più una deduzione dei contributi fino a 1.549 euro. Ma gli sgravi coprono solo una frazione dell’aumento. Il rischio è che una parte delle famiglie scelga la via dell’irregolarità: il lavoro nero nel settore, già intorno al 45%, potrebbe tornare a crescere.
“Abbiamo diluito gli aumenti su tre anni per proteggere chi assume”, ha spiegato Alfredo Savia, presidente di Nuova Collaborazione. “È una prova di responsabilità sociale”. Parole concilianti, peccato che in un Paese dove il 60% delle badanti lavora per anziani non autosufficienti, spesso con pensioni intorno ai 1.000 euro, l’aumento rischia di far saltare il patto domestico su cui si regge il welfare reale: quello tra figli adulti e genitori fragili.
Dietro i numeri si intravede un nodo politico. Il lavoro domestico supplisce da anni alle carenze del sistema pubblico di assistenza: lo Stato incentiva la regolarità ma non sostiene davvero chi assume. Ogni rinnovo contrattuale diventa così una questione di finanza privata più che di politica sociale. “È un passo avanti, ma arriva tardi e senza un contesto di sostegno”, ha avvertito la segretaria confederale Uil, Vera Buonomo, ricordando che “i rinnovi contrattuali medi oggi impiegano 28 mesi, troppo tempo in un Paese dove i salari reali calano dell’8,8% in quattro anni”.
Nel linguaggio sindacale si parla di “riconoscimento”. In quello delle famiglie, sempre più spesso, si parla di “resistenza economica”.
Il lavoro domestico cambia volto
L’accordo riscrive anche il profilo giuridico del lavoro domestico. Per la prima volta, le lavoratrici potranno usufruire di permessi retribuiti per assistere familiari con gravi disabilità: un’estensione sostanziale della legge 104, da cui il settore era sempre rimasto escluso.
Arrivano poi nuove misure per maternità e paternità, con l’introduzione di un congedo facoltativo di quattro mesi, non retribuiti, utilizzabili dopo l’astensione obbligatoria. Il divieto di licenziamento nei periodi di genitorialità viene esteso, così come le possibilità di utilizzo dei permessi per malattia grave. “Abbiamo scelto di rafforzare le tutele nei momenti più delicati della vita, senza attendere un intervento normativo”, ha dichiarato Alessandro Lupi, vicepresidente di Assindatcolf.
Un altro fronte è la formazione. Il contributo a Ebincolf passa da 11 a 30 euro, permettendo di finanziare corsi certificati e aggiornamenti professionali. L’obiettivo è creare figure sempre più qualificate, con competenze certificate secondo la norma UNI 11766:2019. Per i lavoratori domestici, questo significa possibilità di carriera, riconoscimento e una maggiore spendibilità del proprio profilo.
Ma l’aspetto più rilevante è simbolico: il contratto riconosce la professionalità del lavoro di cura. Non è più un’attività “di servizio”, ma un mestiere con regole, formazione e diritti. Una trasformazione che ha un costo — economico, certo, ma anche culturale — perché scardina l’idea che la cura familiare sia un fatto privato. “Abbiamo voluto dare dignità a un lavoro che non si vede ma sostiene il Paese”, si legge nel comunicato congiunto delle sigle sindacali.
L’Italia si regge sul lavoro di cura
Oggi il lavoro domestico in Italia occupa oltre 1,7 milioni di persone, il 4,6% degli occupati complessivi. In larga parte donne, e per il 69% di origine straniera, anche se la quota italiana cresce, soprattutto tra le badanti. Negli ultimi trent’anni il settore è aumentato del 40%, quasi il doppio rispetto al resto dell’economia. Ma dal 2014 la curva si è piegata verso il basso: il calo è concentrato nelle colf, mentre l’assistenza agli anziani è cresciuta dell’11%.
L’Italia invecchia e il lavoro domestico ne è lo specchio. La spesa per l’assistenza privata è esplosa, mentre quella pubblica resta marginale. In molte regioni, la badante è di fatto l’unica infrastruttura sociale ancora funzionante. Eppure, dietro questa centralità, si nascondono precarietà, irregolarità e salari bassi. Il reddito medio annuo di una lavoratrice domestica regolare equivale a un terzo di quello di un dipendente del settore privato.
La firma del nuovo contratto tenta di invertire la rotta. “Rappresenta un modello avanzato di contrattazione collettiva”, ha dichiarato Savia, “capace di garantire salari equi senza attendere interventi normativi dall’alto”.
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