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Il diritto al gioco: perché i bambini hanno bisogno di spazi vuoti e tempo libero

A sei anni molti bambini hanno un’agenda più fitta di quella dei loro genitori: scuola, logopedia preventiva, psicomotricità, inglese, nuoto, un laboratorio creativo il sabato mattina. L’idea che un pomeriggio senza impegni sia “tempo sprecato” è diventata così radicata che lo spazio per l’imprevisto è scomparso. Il risultato è una generazione che conosce già la pressione dell’incastro, ma fatica a trovare spazi in cui essere semplicemente ciò che è: un bambino. Quando, alla domanda “Che hai fatto oggi?”, la risposta è “Niente”, gli adulti si allarmano. Quel “niente”, però, spesso indica l’unica attività davvero rilevante in questa fascia d’età: il gioco.

Ma è proprio in quegli spazi vuoti che abita il diritto al gioco, che oggi — nella Giornata internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza — risulta uno dei più compressi. A ricordarlo, con due prospettive diverse ma convergenti, sono la pedagogista Giovanna Giacomini (Edu-wow.com) e la psicologa psicoterapeuta Virginia Airò (ASL Taranto), entrambe testimoni quotidiane della tensione tra infanzia e adultocentrismo.

Il gioco libero — quello non fotografabile, non rendicontabile, non traducibile in “abilità” — è ciò che consente ai bambini di sviluppare equilibrio emotivo, coraggio, creatività, autonomia. Lo spazio per muoversi senza istruzioni, per cambiare idea, per provare e sbagliare è sempre più compresso da attività pensate per “allenare”, “potenziare”, “stimolare”. Ma l’infanzia non è un’agenda: è un processo organico che ha bisogno di vuoti quanto di strutture, e quei vuoti oggi sono diventati merce rara.

L’infanzia programmata

L’iper-strutturazione non nasce da superficialità, ma da ansia. È un’ansia moderna, che spinge molti genitori a credere che ogni minuto debba essere ottimizzato: se non si impara qualcosa di “spendibile”, allora si sta perdendo tempo. Giacomini descrive questa mentalità in modo diretto: “I genitori, concentrati sull’efficacia, relegano il gioco spontaneo a un ruolo residuale. Il timore di non fare abbastanza porta ad affollare il tempo dei bambini con attività considerate più cruciali”.
È una corsa verso un risultato che nessuno ha definito con precisione. Si anticipano abilità scolastiche, si riduce lo spazio per l’imprevisto, si privilegiano attività guidate a discapito della possibilità di scegliere.

Attività extrascolastiche, quando il troppo stroppia: parola alla pedagogista

A questo si aggiunge un dato culturale che Giacomini vede emergere spesso negli incontri formativi: molti adulti dichiarano apertamente di non sapere come giocare. Non sanno da dove partire, come proporre un’attività, come stare dentro il gioco senza trasformarlo in un esercizio. Da qui la tendenza a ricorrere ad attività strutturate, che sollevano l’adulto dal compito di “non sapere cosa fare”.

Sul piano psicologico, questa iper-organizzazione produce bambini che si muovono in un mondo sempre mediato da istruzioni. Airò lo vede ogni giorno: “Il bambino iper-strutturato perde la capacità naturale di autoregolarsi. È come se non fosse più in contatto con i propri segnali interni”.
Senza gioco spontaneo manca il tempo per misurare la fatica, per esplorare i propri limiti, per chiedersi cosa si vuole davvero fare. Il risultato sono bambini bravissimi a seguire le indicazioni, meno abituati a prendere l’iniziativa. In molti casi, la fatica emerge proprio nei momenti teoricamente “liberi”: non sapendo più che farsene, chiedono all’adulto cosa fare.

Il gioco come base dello sviluppo

Quando un adulto vede un bambino che corre senza meta, sposta oggetti da un punto all’altro, inventa storie con due sassi o si arrampica su un muretto, spesso interpreta la scena come un’attività casuale. Per chi studia lo sviluppo infantile, invece, è uno dei momenti più intensi dell’apprendimento umano. Le neuroscienze mostrano che, nei primi anni di vita, la qualità delle esperienze conta più della quantità di stimoli: non servono proposte complesse, serve libertà. È nel gioco non finalizzato che il cervello costruisce connessioni nuove, consolida quelle esistenti e impara a gestire l’imprevisto.

Giacomini lo spiega bene nei suoi percorsi formativi: i diversi tipi di gioco non sono categorie accademiche, ma modi specifici attraverso cui il bambino integra corpo, emozioni e pensiero. Il gioco motorio, ad esempio, non “scarica energia”: permette di percepire il proprio corpo nello spazio, allenare l’equilibrio, riconoscere limiti e possibilità. La concentrazione che l’adulto vorrebbe vedere seduto al tavolo nasce proprio in questi spazi dinamici, dove il bambino deve coordinare movimento, attenzione e controllo degli impulsi.

Poi c’è il gioco rischioso, quello che molti adulti evitano per paura che sia “troppo”. In realtà è il contrario: è l’occasione per misurare la paura dentro un margine sicuro. Salire su un muretto, saltare da un’altezza che fa esitare, correre nella terra sconnessa: sono tutte prove che hanno un valore regolativo enorme. “Il gioco rischioso non mette in pericolo: protegge” ricorda Giacomini. Protegge dalle paure che si cristallizzano quando non vengono esplorate, protegge dalla convinzione di non essere capaci. Airò aggiunge che i bambini che non hanno mai sperimentato il rischio controllato arrivano in adolescenza più inclini all’ansia e meno abituati a fronteggiare l’imprevisto.

Il gioco simbolico, quello del “facciamo finta che”, permette invece di dare forma all’esperienza interiore. È qui che si costruisce la capacità di mettere in fila le emozioni, di immaginare le intenzioni degli altri, di trasformare un oggetto neutro in qualcosa di nuovo. Quando un bambino usa un cucchiaio come telefono o una foglia come biglietto del treno, sta esercitando una funzione cognitiva altissima: la capacità di rappresentare, che sarà la base del linguaggio scritto e del pensiero astratto.

A questo si affiancano il gioco costruttivo, che sviluppa logica e perseveranza, e il gioco sociale, dove si impara a negoziare e a gestire la frustrazione. È il contesto in cui nasce la relazione paritaria, ben diversa dalla relazione verticale con l’adulto: tra bambini le regole vanno discusse, provate, modificate. Nessuna attività guidata può replicare questa dinamica.

Secondo Airò, tutto questo porta a un risultato psicologico fondamentale: la costruzione dell’agentività, cioè la percezione di essere capaci di agire sul mondo che è la base dell’autostima. “Il bambino capisce che può scegliere, provare, cambiare. È il contrario dell’impotenza”, afferma. Se questo percorso manca, l’autonomia diventa un’abilità appresa tardi e con più fatica. Se è presente, invece, il bambino cresce con un senso di solidità interna che nessuna attività didattica anticipata può sostituire.

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 Bambini senza spazi vuoti

Cosa succede nei bambini che giocano poco, o giocano solo in modo strutturato? Le conseguenze non sono subito visibili, ma emergono con forza tra i 4 e i 10 anni. Airò descrive un quadro ricorrente: bambini che cambiano gioco in modo impulsivo, incapaci di sostare, che chiedono continuamente indicazioni su “come si fa”. Non sono bambini difficili: sono bambini che non hanno avuto abbastanza occasioni per scegliere.

Secondo la psicologa, uno dei segnali più evidenti è la difficoltà nel tollerare la frustrazione. Tutto ciò che non funziona al primo tentativo viene vissuto come un fallimento personale. L’assenza di gioco rischioso, poi, si manifesta con paure intense: dell’altezza, dell’acqua, dell’oscillazione, del buio. Paure trasversali, culturalmente diffuse, che si attenuano solo se il bambino ha avuto tempo di testare gradualmente una sfida commisurata alle sue capacità.

L’iper-strutturazione raffredda anche la dimensione sociale. I bambini abituati a essere guidati faticano a negoziare con i pari, perché non sono abituati alle regole auto-costruite del gioco. Non sanno difendere una posizione, né cedere quando è il momento. In alcune classi della primaria questo genera dinamiche rigide: gruppi fissi, amicizie fragili, conflitti che esplodono senza strumenti di mediazione.

Giacomini osserva un altro fenomeno rilevante: la dipendenza dall’adulto nel gioco. Bambini che non iniziano una storia se non c’è qualcun altro che “apre la scena”, bambini che chiedono conferma a ogni passaggio, bambini che ripetono sempre gli stessi gesti perché non sono abituati a inventarne di nuovi.

Restituire il gioco

Restituire ai bambini il diritto al gioco non significa mettere in discussione il valore delle attività strutturate — molte sono preziose e rispondono a bisogni reali. Significa riportarle al loro posto, senza lasciarle invadere ogni spazio. Il gioco libero ha bisogno di tempo autentico, non ritagli di dieci minuti prima della cena. Ha bisogno di adulti che osservano senza dirigere, pronti a intervenire solo quando la situazione lo richiede davvero. Airò insiste sul ruolo della base sicura: “Il bambino ha bisogno di un adulto che permette l’esplorazione e accoglie al ritorno. Non serve dirigere, serve esserci”.

È una presenza che offre contenimento, non controllo. Se il bambino vuole coinvolgere l’adulto nel gioco, la partecipazione è importante, ma deve essere calibrata: l’adulto non dovrebbe trasformarsi in un animatore, né anticipare mosse e soluzioni. È una competenza difficile oggi, perché gli adulti stessi sono cresciuti in un mondo che valorizza l’efficienza più della disponibilità.

Sul piano pratico, Giacomini propone strumenti concreti che ridanno ossigeno alla creatività infantile. Uno di questi è la valigia dei giochi, un contenitore di materiali semplici — teli, mollette, scatole, corde, cucchiai, bastoncini — capaci di attivare un gioco che non ha un risultato già previsto. Oggetti di uso quotidiano che, proprio perché non hanno una funzione precisa, alimentano la capacità del bambino di generare idee. Un bastone può diventare una bacchetta, un microfono, una chiave, una canna da pesca. Una scatola può essere una casa, un’auto, un nascondiglio. È qui che la creatività esplode, senza bisogno di giochi sofisticati.

Fra i giochi a più alto valore pedagogico, la pedagogista cita il nascondino. È un esempio quasi perfetto di come il gioco semplice possa raccontare lo sviluppo. Quando un bambino si nasconde e resta fermo anche solo venti secondi, sta facendo un esercizio di autonomia emotiva. Se esce subito, è un segnale che ha bisogno di vicinanza; se resiste, è un messaggio di crescita. “È un modo per capire quanto un bambino sia pronto a stare dentro una piccola distanza emotiva”, spiega Giacomini. Un dato prezioso per genitori ed educatori.

Restituire il gioco significa anche restituire tempo vuoto. Non un vuoto disorganizzato, ma un vuoto fertile, dove il bambino possa scegliere, cambiare idea, sbagliare, provare. Significa accettare il disordine, tollerare una certa dose di rischio, lasciare che il bambino impari a leggere i suoi bisogni senza che l’adulto li traduca in anticipo. E significa riconoscere che, come ricorda Airò, “il bambino non fa niente solo quando è costretto o quando ha davvero bisogno di riposo. Tutto il resto è esplorazione”.

Giovani

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

© Riproduzione riservata

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